Questo è un estratto del romanzo “CHI ERA MIO PADRE?”, di Nicola Rocca. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.
CHI ERA MIO PADRE? – di Nicola Rocca
PROLOGO
Il telefono continua a squillare.
E il dottore risponde.
La voce all’altro capo è quella di un amico che ha bisogno di aiuto. Del suo aiuto.
Nemmeno il tempo di riattaccare ed è già là, in quella casa.
Di fronte a lui, l’amico. Poco di fianco, una donna più avanti con gli anni, il volto segnato dalla disperazione e dal dolore.
Sul letto, un corpo senza più vita. Un involucro senza più anima. Gli occhi sbarrati verso un soffitto che non possono più vedere.
Dopo un lungo silenzio, l’amico gli sussurra una richiesta con parole sorde e costernate.
E lui dice no. Ripete no. Implora no. Ha fatto un giuramento, molti anni addietro.
E quel giuramento non prevedeva una cosa del genere. Tantomeno la prevede ora.
L’amico insiste; quelle parole terribili e le lacrime della signora gli procurano una stretta alla gola.
Esita, temporeggia, sospira e infine chiude gli occhi. Pensa alle parole del Giuramento.
“… di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”.
Ha piena coscienza del fatto che tradirà quella promessa.
Guarda l’amico e gli dice di dover recuperare la sua borsa. E anche qualcosa di più, perché ciò che dovrà fare non rientra nella normalità del suo lavoro.
Lascia la casa e quando torna ha con sé tutto quello che gli serve.
Chiede all’amico e alla donna di lasciarlo da solo nella stanza. Li avverte che ci vorrà molto tempo. I due annuiscono come burattini cui qualcuno regge i fili. Sono pallidi, colmi d’angoscia, eppure determinati.
“Togliamo noi i vestiti” sussurra la donna. Una lunga consuetudine con il dolore le ha scavato rughe profonde nel viso.
I due procedono in silenzio, veloci: denudano il cadavere, poi escono dalla camera e si chiudono la porta alle spalle.
Il medico rimane solo con se stesso, con il corpo esanime sul letto e con il terrore per il gesto che si accinge a compiere.
Apre la borsa e ne estrae un foglio di plastica robusta. Lo sistema nel letto, spostando a fatica il cadavere. I bordi del foglio si adagiano crepitando sul pavimento. Infila un paio di guanti di gomma, spessi. Apre due sacchi della spazzatura e li infila l’uno dentro l’altro. Li sistema di fianco a sé.
Il bisturi è un lampo di luce: prima che abbia il tempo per ripensarci, incide la salma con il classico taglio a Y, che prolunga fino al pube. Netto e preciso. Svuota completamente torace e ventre e getta tutto quanto nel sacco. La piccola sega vibrante per tessuti ossei fa il suo lavoro, rumorosa. La calotta cranica viene sollevata, le meningi incise, il cervello asportato.
Rimane pietrificato a osservare ciò che ha appena fatto. Ora non può più tornare indietro. Respira con la bocca, perché il fetore è atroce.
Recupera da un borsone otto flaconi di formalina.
Riempie la cavità addominale con bende e le inzuppa di liquido. Inizia a ricucire lo squarcio addominale, poi i tagli superiori della Y; riposiziona la calotta cranica, risolleva il lembo di pelle e lo cuce con pochi punti rabbiosi, eppure metodici. Da un flacone di formalina aspira un’abbondante quantità di liquido con una siringa dall’ago piuttosto grosso. Sa che per riempire il sistema circolatorio avrebbe bisogno di un macchinario speciale, ma deve arrangiarsi con i mezzi di cui dispone in quel momento. Inizia a iniettare la formalina nelle vene di quel corpo rattoppato. Quando la siringa è vuota, la riempie di nuovo e ripete l’operazione di iniezione più volte.
Si ferma e osserva quel corpo. Con la manica si asciuga la fronte madida, poi prosegue iniettando nei glutei, nelle cosce, nei polpacci e lungo le braccia altra formalina. Solo allora cuce anche le labbra e sigilla gli orifizi delle orecchie e del naso con una sostanza siliconica.
Per l’ennesima volta rimane a guardare ciò che ha fatto. E per l’ennesima volta si rende conto che non può più tornare indietro.
Con l’aiuto di bisturi e pinza, cava gli occhi dalle orbite del cadavere e incolla le palpebre, pulendo come può l’area circostante.
A quel punto esce dalla stanza e avvisa l’amico di aver fatto ciò che gli era stato chiesto. L’uomo lo ringrazia e lo stesso fa la donna. E lui, il dottore, per un attimo sente alleviato il suo senso di colpa.
“Non basta, lo sapete anche voi” mormora, “Ci vuole altro”.
L’uomo si volta un attimo verso la compagna. “Troveremo il modo” risponde.
Non appena il medico giunge a casa, i rimorsi lo aggrediscono e lo azzannano come bestie feroci. E così continuano per tutta la notte, impedendogli di chiudere occhio. In quelle ore che non passano mai si rende conto veramente di ciò che ha fatto. Sa che Ippocrate non lo perdonerà mai.
Alle prime luci del mattino, impaziente, alza la cornetta del telefono e chiama l’amico.
“Sono io. Senti, è tutta la notte che ci penso. Devi denunciare il decesso. Io non…”
L’altro lo interrompe, la voce ridotta a un sussurro. Forse teme di essere ascoltato.
“… non farlo. Non possiamo. Lo sai.”
La voce del medico è stridula, la tensione lo sconvolge.
“Ho commesso qualcosa di illegale, un atto che va contro tutti i principi della mia professione. Lo capisci questo?”
L’amico prova a spiegargli come stanno realmente le cose, ma si rende conto che non c’è verso di dissuaderlo. A quel punto, sembra rassegnato e gli promette che denuncerà la morte della persona, permettendo al dottore di tornare in pace con se stesso.
Nella mente dell’uomo, però, prende vita un pensiero che è totalmente contrario alle parole appena pronunciate.
Ora che il medico ha deciso di raccontare tutto, c’è un solo modo per zittirlo. Non ci sono alternative, non ci sono strade secondarie da percorrere. Non ci sono vie di fuga. C’è un modo e uno solo per farlo tacere per sempre. Ucciderlo!
Andrà a casa sua e lo ucciderà.
Ucciderlo!
Sì, lo ucciderà.
Così come molti anni prima aveva fatto con un’altra persona.
Il libro è reperibile su
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BIOGRAFIA
Nicola Rocca nasce a Bergamo il 23 settembre 1982 e vive a Carvico. All’età di ventiquattro anni scopre la passione per la scrittura e, dopo una serie di segnalazioni e premiazioni a vari concorsi letterari nazionali, nel dicembre 2013 esordisce in narrativa con FRAMMENTI DI FOLLIA (Editrice GDS), un’antologia di racconti thriller/noir (finalista al Premio Giuseppe Matarazzo 2013).
Nel giugno 2014 si classifica al terzo posto al “Premio Nazionale Ignazio Russo 2013” con il racconto L’unica soluzione possibile.
Nel luglio 2014 esce il thriller CHI ERA MIO PADRE?, il suo primo romanzo, che spacca in due la critica dei lettori. E’ questo, infatti, il motivo che spinge l’autore, a distanza di qualche mese, a pubblicare una seconda edizione rivista e corretta.
Nel dicembre dello stesso anno pubblica, esclusivamente in versione digitale, il racconto COLD CASE - IL DIARIO DEGLI OMICIDI IRRISOLTI.
Attualmente sta lavorando a due nuovi romanzi thriller, uno dei quali uscirà con ogni probabilità entro la fine del 2015.