Giuseppe Marino, scrittore, nasce nel 1974 e vive a Lizzano
(TA). Sin dall’infanzia mostra una viscerale passione per la scrittura andando
a scavare in tematiche in cui il divino e il quotidiano si fondono.
Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra cui
L'Ultimo Bardo d'Irlanda, & MyBook, Vasto (CH), 2009;
La fenice e altre poesie in "Bookland 2010", &
MyBook, Vasto (CH), 2010;
L'arpa di Turlough O'Carolan, Talmus Art, San Marzano di S.
G. (TA), 2012
Il viandante e il divoratore di falene, Edizioni del Faro,
Trento, 2014
Il brano che vi proponiamo è tratto dal suo libro L'arpa di
Turlough O'Carolan.
L’Autore narra dei fatti “Veri” e si aspetta dal lettore degli
approfondimenti in modo “Interattivo”. Per questo motivo l’abbiamo accolta in
questo sito, dedicato al “Verismo Interattivo”, il nuovo genere letterario di
Alfio Giuffrida, che vi rimanda alla pagina Forum per i vostri commenti.
Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La
pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il
permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile
all’amministratore del sito. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito di Giuseppe Marino http://www.giuseppemarinoscrittore.it/ .
L'arpa di Turlough O'Carolan è ambientato negli anni tra il
1735 e il 1738, in un’Irlanda insanguinata dalla pesante dominazione inglese e
quindi dalla guerra di religione tra anglicani e cattolici, il racconto narra
gli ultimi anni di vita di Turlough O’Carolan, mitico “bardo”, musicista
itinerante, eccellente suonatore irlandese d’arpa celtica. Insieme al fidato
Phelan, O’Carolan percorre la propria terra diretto a nord, la parte più
settentrionale dell’isola, dove intende far vibrare le corde della sua arpa, a
Malin Head nella Contea del Donegal, di fronte all’Oceano Atlantico...
Cap. 1
Era andato tutto alla perfezione, ma Turlough O’Carolan, il
grande suonatore di arpa celtica, non ne era ancora del tutto convinto. Certamente
non ne era soddisfatto; il suo spirito, che andava sempre alla ricerca del
suono perfetto, non si sentiva appagato. Ripeteva sempre in continuazione, come
se volesse convincere ancora qualcuno, che quella sera aveva pizzicato la corda
in un modo non voluto producendo un suono non desiderato.
“Doveva vibrare di più”, gridava, “Maledetta corda. Puah”, e
non si dava pace. Inutili risuonavano le parole del suo compagno che cercava in
ogni modo di renderlo tranquillo. Le parole si perdevano nel vento.
Era la mattina del 27 aprile dell’anno 1735 e Turlough
O’Carolan insieme al suo fido e coraggioso compagno Phelan erano in viaggio per
una nuova avventura.
Alle loro spalle lasciavano la Contea di Galway, dove
avevano soggiornato per alcune settimane
presso il Castello di Tuam, uno dei più antichi e più belli
di tutta l’Irlanda, e di cui il principe andava fiero; castello fatto costruire
nel 1161 dall’ultimo re indipendente d’Irlanda Roderick O’Connor, durante il
periodo dell’invasione inglese.
Qui avevano allietato le serate suonando e
cantando storie di grandi battaglie, di grandi imprese, di grandi eroi; e storie
d’amore per le belle fanciulle dagli occhi verdi come il mare. Le dita del
bardo avevano fatto vibrare le corde del cuore di Leah, raggio di sole, la piccola
principessa, promessa sposa di un uomo che sentiva di amare, ma che neppure
conosceva.
“Ancora, vi prego, suonate ancora per me”, ripeteva Leah.
“Fatemi sognare ancora”.
“Non posso negarvi questa grazia, o mia adorabile
principessa” le rispondeva, mentre gli si formava un nodo alla gola. E suonò
ancora per lei, la piccola principessa, per molto tempo ancora. E suonò così
con grande precisione e sentimento che tutti desideravano che quel momento cosi
magico non avesse mai fine.
Avevano dormito solo poche ore, ma riposato abbastanza bene
nelle stanze messe a loro disposizione dal principe Finbar. Avrebbero voluto trattenersi
ancora per qualche altro giorno, ma l’emozione di fare nuove avventure e di
conoscere altri luoghi meravigliosi li spingeva a partire.
“Venite a trovarci quando volete. Sarete sempre il
benvenuto” lo salutò il principe Finbar.
“Si, quando volete; ma soprattutto non mancate al giorno
delle mie nozze. Vi aspetteremo con grande impazienza”, ripetè la principessa
Leah, inchinandosi, e arrossendo.
E così quella mattina del 27 aprile, sistemata ogni cosa,
con un piccolo fagotto con un po’ di pane
e qualche pezzo di formaggio, i due si misero a cavallo e si
diressero verso ovest, verso la Contea di
Mayo. “Non posso darmi pace, lo capite Phelan?” sbraitava.
“Ma avete suonato così bene! Perché non volete credermi?”
“Perché lei non suona niente. Non sa niente di queste cose.
Non sa come mi sento avvilito!”
“Mah…, mah…, il principe Finbar vi ha tenuto in grande
considerazione per tutti i servigi che gli avete accordato e i vostri
innumerevoli consigli, e la principessa, poi, ha molto gradito le vostre
musiche e le vostre storie, era così entusiasta. E così graziosa!”
“Phelan, tacete! Quante idiozie che dite. Smettetela!”
Phelan tacque, amareggiato. I due proseguirono il cammino in
silenzio. Avrebbe desiderato parlare ancora e chiarire una volta per tutte che
lui era il miglior suonatore di arpa errante di tutta l’Irlanda, ma non c’era
verso per farglielo capire.
Ogni parola era inutile. Non aveva studiato Phelan,
ma sapeva benissimo che tutti i compositori di musica e di poesia, non sono mai
paghi di quello che scrivono, di quello che suonano.
Cercano sempre nuove alchimie per alimentare il loro
spirito, la loro sete di perfettibilità, la loro fame di eternità. Lo sapeva
benissimo, eppure ogni volta che lasciavano un villaggio, iniziavano sempre le stesse
liti su quella nota che avrebbe dovuto vibrare di più e che non vibrava mai, e
Phelan si era stancato.
“Ma cosa ci avrà mai questa nota poi che deve vibrare così
tanto?” si chiedeva tra sé, non riuscendo a capire. E si strinse tra le spalle.
Il vento soffiava forte e travolgeva ogni cosa. La pioggia, così violenta, si
abbatteva sugli alberi, trascinava tutto.
Il piccolo corso del fiume Clare alla
loro sinistra, ingigantito, correva verso l’Oceano: impetuoso; come gli animi
dei nostri due viandanti, che avvolti nei loro mantelli e incappucciati a dovere,
proseguivano il loro cammino in silenzio affrontando ostacoli, imprecando e
sbuffando contro il cattivo tempo.
Cap 2
“Dobbiamo trovare un riparo. Siamo tutti fradici!”, urlò
Phelan, rompendo quell’assurdo silenzio.
Il suonatore di arpa celtica non proferì parola, ma fece
cenno col capo che era meglio fermarsi da qualche parte. Galopparono, seguendo
le sponde del fiume, per qualche altro miglio ancora, quando in lontananza
videro un ponte di pietra.
“Ci fermeremo qui, sotto questo ponte”, disse Phelan,
posando l’arpa per terra, tutto contento per il
sollievo. “Certo non è il migliore dei posti, ma sicuramente
ci terrà per un po’ all’asciutto”, e aiutò il Maestro a sedersi accanto alla
sua arpa.
Trovò sotto il ponte un po’ di legna asciutta ben accatastata, evidentemente
dimenticata da qualcuno per chissà quale motivo, ma questo a lui non importava
poi cosi tanto. Pensò che fosse stata la provvidenza a fargliela trovare.
Accese il fuoco con grande fatica e, finalmente, anche lui potette sedere.
Stanco, ma soddisfatto.
Avevano percorso molte miglia, sotto quella maledetta
bufera, si sentivano a pezzi, e quel ponte
di pietra che ricordava gesta antiche sotto il grande Impero
dei Celti sembrava essere un piccolo angolo di paradiso.
I loro animi, intorno al fuoco, si rasserenarono e tornarono
a sorridersi. Mangiarono quel poco che portavano con sé, pane e formaggio. “Forse
è meglio che restiamo qui questa notte!”, disse Phelan, ravvivando il fuoco. “Riprenderemo
il cammino domani”.
Così si prepararono per trascorrere la notte, al riparo da
tutto. “Sapete, Phelan, una cosa?” cominciò il grande Maestro. “Cosa?”, rispose
Phelan.
“Ho sempre nutrito un sogno sin da quando ho imparato a
suonare l’arpa, un desiderio che vorrei
si realizzasse. Lo so, è un po’ stupido. Forse è solo un
capriccio, ma…, più passano gli anni e più sento urgente il bisogno di dare
ascolto a questa mia voce interiore. Non riesco a darmi pace, sapete?
Non so come
spiegarvelo: è come se qualcuno o qualcosa mi spinga a farlo. Non so cosa sia.
Forse è questa matta voglia che circonda noi artisti di non essere mai paghi di
quello che facciamo…, di quello che siamo. Siamo sempre in continua ricerca di
cose nuove, di stimoli sempre freschi”.Phelan, presagendo sogni invalicabili,
iniziò a temere.
“Forse è la paura di restare soli”, continuò il Maestro,
“forse è il desiderio di non essere ricordati
in futuro, forse è il desiderio di eternità, forse è il desiderio
di amare e di essere amati. Forse è perché ci piace fare cose strane. Non
saprei, davvero. Forse sono tutte queste cose messe insieme. Lo so, siamo pazzi.
Ma chi non lo è, d’altronde? Ognuno ha le sue pazzie. E io ho le mie”.
“Avete ragione! In fondo siamo tutti pazzi in questo mondo.
Chi più e chi meno, tutti quanti
abbiamo le nostre pazzie. Non posso non darvi ragione su
questo”, rispose Phelan, mentre si
avvolgeva nel suo verde mantello.
“Sono anni che vaghiamo per i villaggi e le grandi città
dell’Irlanda, suonando per la gente
semplice così come per i casati nobili, in castelli o in locande
affrontando intemperie e stanchezze,
portando ovunque un po’ di serenità. La serenità!”. Si
interruppe come per respirare l’aria intorno a sé. “Già! La serenità…, ma la
mia dov’è, Phelan?” E tirò un profondo respiro.
“Non parlate così, vi prego! Meglio di no! Meglio di no!”.
“Scusate Phelan. Ma debbo ringraziarvi per tutto quello che
fate per me. Siete davvero un amico”.
“Grazie a voi, Maestro”. Phelan, fin troppo commosso, tirò
su col naso, rumorosamente, e per non farsi accorgere che sulle guance
scorrevano delle lacrime si girò dall’altra parte. “C’è bisogno di
altra legna sul fuoco”, disse. “La notte sarà lunga e fredda”.“
Phelan ho voglia di suonare. Passatemi l’arpa”. Pioveva
ancora. Le acque del fiume sotto il ponte
gorgogliavano. L’aria, così greve, si riempì di una nuova
musica. Magica. Tutto acquistò un sapore
diverso. Tutto divenne più leggero, più sopportabile.
Le Lamentazioni di Turlough O’Carolan ebbero questo effetto.
Il cuore, liberato dalla stanchezza,
volava lontano nelle verdi praterie del Meath. “Sapete,
Phelan, quale è la mia pazzia?
Voglio dirigermi a nord, voglio raggiungere la parte più
settentrionale dell’isola, voglio far vibrare le corde della mia arpa a Malin
Head nella Contea del Donegal, di fronte all’Oceano Atlantico”.
Ma Phelan non rispose: cavalcava su altre praterie, lontano
da occhi indiscreti.