Le fosse di Katyn
Mia madre visse sempre con il desiderio di sapere come e dove morì suo padre e di potersi recare un giorno in quel punto esatto per mettere un fiore sulla sua tomba, anche se si fosse trattato solo di una fossa comune, ma almeno sapere quale, visto che a Katyn ne furono trovate molte. Quando fu adulta, sposò un italiano e nacqui io.
Dopo alcuni anni si separò da mio padre e noi due restammo sole, ma lei restò sempre con il desiderio di vedere il luogo dove morì suo padre e prima di morire mi raccomandò di continuare quelle ricerche e, se avessi trovato quel luogo, andare a deporre un fiore in quella terra lontana.
Questo è il motivo perché sono tornata da te, perché ho capito che tu sai qualcosa di mio nonno. Del tuo passato non so e non voglio sapere nulla, non ho alcun rancore verso di te, sicuramente non sei stato tu ad ordinare quella strage a Katyn, ma qualunque cosa tu sappia di mio nonno, ti prego di dirmela, te ne sarò sempre grata».
Giulia aveva parlato in modo accorato. Per tutto il tempo del suo discorso lo sciamano aveva tenuto lo sguardo basso, come quello di chi sa di avere una colpa e se ne vergogna, ma due grosse lacrime rigavano il suo volto.
Il suo silenzio fu lungo e sofferto, ma poi finalmente parlò: «Il mio vero nome è Stepanov! Buin Stepanov! Sono nato in Siberia a Ulan Ude, nei pressi del lago Baikal, da una nobile famiglia di Buriati. Da bambino venivo condotto dai parenti della mia etnia alle sedute sciamaniche che si svolgevano in molti villaggi della Buriazia.
Fin da giovane cominciai a dare dimostrazione dei miei poteri sul rito sciamanico, chiamando e accogliendo in me gli spiriti degli antenati. Affinai anche l’uso delle armi, con il fucile riuscivo a colpire il centro del bersaglio cento volte su cento. Ero il miglior tiratore in tutta la confederazione sovietica ed inoltre facevo parte della Nomenclatura.
Quando Ribbentrop e Molotov, il 23 agosto 1939, firmarono il patto con il quale Hitler e Stalin, di comune accordo, si dividevano la Polonia e stabilivano una politica di collaborazione strategica, io ero Tenente dell’Armata Rossa ed ebbi un piccolo ruolo nelle trattative tra i due statisti.
A quel tempo appartenevo ad un gruppo di giovani attivisti che consideravano infantile il piano con cui Hitler pensava di impadronirsi del mondo intero.
Per noi la sola idea giusta era quella dettata dalla Nomenclatura di Santa Madre Russia, che avrebbe riunito tutti gli stati della Terra sotto un’unica nazione, guidata dalla Nomenclatura sovietica, la sola in grado di governare con saggezza sul nostro pianeta.
Allora eravamo convinti che ciò che dicevamo era corretto, pensavamo veramente che gli altri popoli si sarebbero sottomessi volentieri alla nostra aristocrazia, ritenendola saggia e giusta.
Non ci rendevamo conto dell’ipocrisia che si nascondeva dietro il nostro pensiero politico, con la quale si cercava di far passare la sfrenata sete di potere di coloro che ci manovravano, con la volontà di uguaglianza e di altruismo verso il popolo.
Eravamo sicuri che quando tutte le nazioni dell’est europeo fossero state sotto la nostra dominazione, avremmo sottomesso anche la Germania Nazista e annientato le sue teorie, diventando i soli padroni dell’universo.
Per ottenere questo dovevamo agire con determinazione, al fine di eliminare le nomenclature delle altre nazioni. «Se gli altri popoli non avranno più una storia ed un capo, non ci saranno più guerre», ci avevano detto, e noi ci avevamo creduto ciecamente, eravamo convinti che l’eliminazione fisica di molte persone fosse un bene per tutta l’umanità.
Quando ci dissero che era giunto il momento di eliminare la nomenclatura polacca, noi pensammo di condurre una azione umanitaria.
Ci portarono nella prigione di Smolensk, un posto sperduto nella cosiddetta foresta di Katyn, dove erano stati riuniti un centinaio di uomini in catene.
Ci dissero che le loro idee erano contro la rivoluzione che il nostro governo aveva intrapreso per riunire tutti i popoli della terra sotto un’unica bandiera, per cui occorreva eliminare fisicamente quei prigionieri, affinché le loro parole non potessero contaminare altre orecchie innocenti. Io fui uno dei primi a giocare al tiro al bersaglio, ne uccisi due o tre al primo colpo, poi ne colpii un’altro in un punto non vitale, lui si accasciò sulle ginocchia ma non cadde al suolo.
Mi avvicinai a lui con la pistola in pugno per finirlo, ma lui mi guardò fisso negli occhi e con meraviglia non vidi paura nel suo sguardo, ma solo rabbia per ciò che stavo facendo.»
«Se pensi di conquistare i popoli con le armi,» disse con voce severa ma pacata, «sarai sempre contro qualcuno e un giorno sarai giustiziato anche tu con le tue stesse armi.»
«Chi sei tu, che pensi di salvarti con inutili parole dal fuoco sacro della giustizia? Stai invocando pietà per il tuo inutile corpo?», chiesi io con l’autorità di chi ha le armi in pugno.
Mi rispose con voce ferma: «Mi chiamo Stanislaw Mazowiecki ed oggi morirò per le tue idee, ma quante altre persone dovrai uccidere per imporre le tue convinzioni anche a loro? Oggi forse sta nascendo mio figlio e domani ne nasceranno altri, tanti altri. Sicuramente molti di loro non la penseranno come te, cosa farai tu allora? Li ucciderai tutti?
La guerra è sempre stata una brutta cosa e non serve per portare avanti idee ed ideologie. Ricordati che il bene prevarrà sempre sul male e la forza non servirà a convincere le menti e gli animi.»
«Mentre ascoltavo quelle sagge parole, non sentii che il mio Capitano mi stava ordinando di non parlare con i detenuti ma di finirli e basta. Mi accorsi di lui solo quando vidi la canna della sua pistola a fianco alla mia, sentii lo sparo e vidi la fronte di Stanislaw squarciata da un buco e il sangue che schizzava bagnando il mio volto.
Fu un istante, mi girai, puntai la pistola verso il mio Capitano e feci fuoco.
Il giorno dopo fui immediatamente processato ed inviato in un gulag in Siberia.
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