A lui era capitato anche qualcuno di questi casi, come ad esempio una inchiesta sul traffico di droga in cui era implicata l’attrice più in vista del momento, oppure qualche caso di stupro ad opera di giovani della jet society, poi finito su tutti i giornali. Ma lui era stato sempre integerrimo: non aveva fatto trapelare neanche un particolare prima che l’inchiesta o il processo fosse concluso. Su tale argomento, lui aveva preso una posizione ben decisa: «Quando una indagine o un processo viene dato in pasto alla gente», diceva con voce alta e convinta, «nessun giudice può più fare a meno di essere influenzato dall’opinione pubblica, a tutto danno della verità e della giustizia».
Già a quel tempo, nei corridoi dei tribunali, si parlava molto di questa abitudine e il mondo dei giudici era diviso. Alcuni dicevano: «La popolazione deve sapere tutto e subito, sui fatti ed i misfatti che accadono nel mondo. Ed i giornalisti sono fatti apposta per questo». Altri affermavano che tutto ciò poteva essere reso pubblico solo dopo che la giustizia aveva fatto il suo corso e smascherato i colpevoli, perché sarebbe stato facile per dei giornalisti interessati o prezzolati pubblicare false notizie o insinuazioni, per gettare fango su personaggi molto in vista che, pur se estranei ai fatti o coinvolti in modo solo marginale, potevano essere messi al centro dell’attenzione e giudicati dai mass media prima ancora di essere giudicati dalla giustizia.
Era quello il periodo in cui il caso del rapimento di Emanuela Orlandi campeggiava sulle prime pagine di tutti i giornali. In un primo momento sembrava solo un sequestro effettuato da una banda organizzata. Si cercò di rintracciare l’uomo con la BMW verde che l’aveva adescata con la scusa di farle fare una vendita di prodotti cosmetici, come lei stessa aveva riferito per telefono ai genitori e ad una amica, nelle ore subito precedenti la sua scomparsa.
Da un primo identikit circa il presunto rapitore, qualcuno degli investigatori fece il nome di Enrico De Pedis, uno dei capi della “banda della Magliana”, allora implicata nei maggiori reati della Capitale, con collegamenti nel mondo della finanza e della politica. Tuttavia quella notizia non fu tenuta segreta, come doveva esser fatto secondo il nostro giudice, ma fu subito pubblicata su tutti i giornali.
Il giorno dopo cominciarono le telefonate dei possibili rapitori, ognuno dei quali dette dei particolari che denotavano la piena attendibilità del fatto che la ragazza fosse nelle loro mani.
Pochi giorni dopo cominciò a farsi avanti addirittura l’organizzazione terroristica turca dei “Lupi grigi”, che rivendicò il sequestro e dichiarò di essere in possesso dell’ostaggio. Per la liberazione della ragazza chiesero lo scambio con il terrorista Mehmet Ali Ağca, allora in carcere perché ritenuto responsabile dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II, del 13 maggio 1981.
Con questa svolta, il caso era ormai divenuto di dominio pubblico. La gente era disposta a cancellare degli appuntamenti importanti per restare attaccata al televisore ed ascoltare il telegiornale che dava le notizie sul “Caso Orlandi”. Si organizzavano delle fiaccolate nelle strade della Capitale per supplicare i rapitori di rilasciarla. Ma tutto ciò era veramente utile, oppure il caos che si era creato su quel caso era il modo migliore per invogliare i rapitori a tenerla sequestrata ed alzare il prezzo del riscatto?
Era questo che il papà di Susanna, allora giovane giudice del tribunale di Roma, sosteneva con forza, quando chiedeva che l’inchiesta fosse affidata a lui, che non avrebbe fatto trapelare più nulla.
In effetti il caso passò di mano più volte, ma rimase affidato sempre ad altri magistrati, i quali spesso si lamentavano che a loro fosse affidata quella inchiesta così scottante, divenuta ormai oggetto di pubblico interesse, per cui aveva assunto una importanza superiore a tutte le altre.
Tutti si mostravano costernati ed arrabbiati di doversi occupare di quel caso, considerato come una “patata bollente”, ma si guardavano bene dal rifiutarlo. Tutti dicevano di voler restare nell’ombra ed interessarsi solo dei ladri di polli, ma intanto accettavano di seguire il “caso Orlandi” e subito apparivano in televisione per dare in pasto al pubblico qualche particolare, magari ancora non verificato, ma che faceva scena, che coinvolgeva qualche personaggio della politica o della finanza, traendone subito dei vantaggi in pubblicità ed immagine e, chissà, forse anche in denaro.
Dopo qualche richiesta più o meno esplicita, il giudice Luca perse la testa ed esagerò con le affermazioni fatte in pubblico, in effetti sempre e solo nella sua ristretta cerchia di amici, ma pur sempre davanti a testimoni. Parlò molto male dei suoi colleghi, disse che loro, in apparenza, si scambiavano sempre dei saluti cordiali ed apparentemente distesi, ma dietro le spalle lottavano ai ferri corti per farsi affidare l’inchiesta, forse solo perché avrebbe dato loro una grande notorietà, ma lui insinuò che qualcuno ci avrebbe anche lucrato sopra.
Disse con cattiveria che alcuni giudici avevano passato le notizie più scottanti ai giornalisti dietro lauti compensi dati sottobanco. Portò avanti la sua diceria che a guidare la giustizia fosse “l’Ipocrisia”, quella con la “I” maiuscola, che dava a molti la possibilità di scagliare un sasso per agitare le acque, mettere il proprio nome in auge su tutti i giornali, per poi ritirare indietro la mano, dando alla persona che egli aveva accusato la possibilità di difendersi facilmente, perché la sua non era stata una accusa basata su fatti certi, ma solo una supposizione, di quelle che fanno vendere molte copie di giornali, ma che poi, con un po’ di calma e qualche soldo, possono essere messe a tacere e non creare gravi problemi.
«A volte basta il sequestro o la morte di una persona qualsiasi, il cui caso si presti a destare la curiosità della gente», diceva indignato il nostro giudice, «e molti giornalisti riescono a camparci sopra per parecchi anni, fingendosi interessati, ma in effetti restando indifferenti al caso umano, anche quando si tratta di bambini e pensando solo al proprio tornaconto».
La rabbia del giovane magistrato si aggravò quando il sequestro della ragazza fu collegato allo scandalo dello IOR ed al caso Calvi, allora amministratore delegato del Banco Ambrosiano. Secondo alcuni giornali e trasmissioni televisive era stato direttamente monsignor Paul Marcinkus, che all'epoca era presidente dello IOR, ad ordinare il sequestro, allo scopo di intimorire alcune
alte sfere all’interno del Vaticano, non si sa bene per quale motivo. Anche questo accostamento sembrò alquanto artificioso ed il nostro giudice si affrettò a spettegolare che: «Tali notizie sono state divulgate con il solo scopo di gettare fango sulla Chiesa o su personaggi pubblici che, per difendersi dalle accuse mosse dalla stampa ed essere pubblicamente scagionati, potrebbero essere indotti a pagare laute ricompense».
Quelle parole, dette in pubblico, avevano riacceso le critiche contro di lui relegandolo sempre più in disparte e incattivendo il suo carattere. Tutte queste affermazioni, oltre che dal punto di vista sociale, avevano creato gravi ripercussioni anche sulla sua carriera. Venne accusato dai superiori di aver fatto delle critiche gratuite per le quali, se si fossero verificati gli estremi di reato, non avrebbero esitato a denunciarlo. La sua vita divenne difficile. Tutti i suoi colleghi lo evitavano, rinunciando volentieri alla sua amicizia e lui smise di essere cordiale e allegro. Il suo carattere cambiò del tutto, rendendolo una persona burbera, cinica, insensibile e sospettosa.
Tuttavia, come magistrato, aveva una grande capacità e competenza nell’espletare il proprio lavoro e questo lo aveva salvato da procedimenti amministrativi contro di lui, ma non dalla inevitabile solitudine. La sua rettitudine era l’unico motivo che lo sosteneva ma, a volte, i colleghi più invidiosi lo schernivano proprio per quella. Lui si difendeva a denti stretti, faceva notare che, stando alle notizie riportate dalla stampa, in quella storia avrebbero potuto essere coinvolti lo Stato Vaticano, lo Stato Italiano, l'Istituto per le Opere di Religione (IOR), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti di diversi Paesi. Fatti troppo diversi tra loro per poter essere coesistenti.
Secondo lui, le notizie che venivano riportate sui mass media, erano incomplete e alcune addirittura false, date in pasto ai cronisti con il preciso scopo di creare uno scoop o addirittura di deviare le indagini. Ma era giusto tutto ciò? Era corretto che, con la scusante di dover informare la popolazione si potessero deviare le indagini? Tutto questo veniva fatto a fin di bene, per dare al pubblico tutte le notizie possibili, o era un modo per lucrare sulle disgrazie altrui? Le indagini ne avrebbero tratto un beneficio oppure era un modo per deviarle?
Il giudice diceva, sempre più indignato per come stavano andando le indagini: «Non dobbiamo permettere che siano date al pubblico troppe notizie non verificate, altrimenti uccideremo per sempre la Giustizia ed è inutile che poi cerchiamo di resuscitare un morto dopo averlo sepolto sotto una montagna di bugie.»
E dopo qualche anno ci fu il colpo di grazia, quando si venne a sapere che il bandito Enrico De Pedis, subito dopo la sua morte, era stato sepolto nella Basilica di Sant’Apollinare, in territorio Vaticano, con il benestare, se non addirittura l’intercessione, di un illustre Cardinale, allora presidente della CEI. Quella notizia riaccese subito le polemiche contro la Chiesa, accusata di avere accolto tra le proprie mura il corpo di una persona, che in vita era stato un criminale, per il solo scopo di celare chissà quale mistero. Anche in quel caso si vendettero milioni di copie di giornali e molte rubriche televisive furono dedicate a quella scoperta, ma dopo poco tempo non ne parlò più nessuno. Forse qualcuno aveva pagato per quel silenzio?
Ma il nostro giudice era ormai stanco di lottare e quella notizia scandalosa lo fece solamente sorridere.
Giusto qualche piccola piega del labbro in quel suo volto indurito dalla rabbia e dall’indignazione verso molti dei suoi colleghi, che gli avevano tolto quel gusto alla vita ed avevano ucciso quei sentimenti che da giovane lo avevano portato ad essere un leader nella società, mentre adesso era sempre più solo, pieno di autorità e di autostima, ma incapace di fare anche solo un sorriso ad un bambino o ad un cane.
Ormai la rabbia e l’indignazione avevano occupato per intero il suo cuore e la sua mente, lui si era fatta la ferma convinzione che era proprio l’Ipocrisia che governava la Giustizia, la Politica, la Società, TUTTO!!!
Pensava che tutto, nel mondo, fosse fatto in funzione dell’ipocrisia che entrava sottile in tutte le azioni della nostra vita. «Ed io, povero imbecille», disse tra se e se, «che volevo combatterla con l’onestà e la rettitudine! Sono stato uno stupido, un ingenuo, un bambino incapace di valutare i fatti. Non mi ero assolutamente reso conto di quanto l’invidia e la bramosia si fama e di potere, nell’uomo siano più forti della bontà e del senso di dovere. Ed ho fatto male a me stesso, alla mia famiglia ed in particolare a mia figlia, che volevo aiutare a modo mio, senza neanche ascoltare le sue parole e valutare le sue reali esigenze».
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